Testi di orientamento

Parlare con il proprio corpo-sgabello

Éric Laurent




Trascrizione sulla base della registrazione diffusa attraverso Radio Lacan dall’equipe riunita da Didier Mathey

 

 Lo sgabello e la sublimazione freudiana. Dalla forzatura alla manipolazione

 

Allora veniamo adesso allo sgabello e alla maniera in cui, nella sua conferenza, Jacques-Alain Miller parla di questo sgabello, anche con una distanza critica, ma presentandolo  come “ciò su cui il parlessere si issa, per farsi bello. Il suo piedistallo gli permette di elevare se stesso alla dignità della Cosa”.[1] Questa frase fa riferimento alla lettura che Lacan nel suo Seminario su L’etica della psicoanalisi[2] cinque anni dopo il Seminario IV – fa della sublimazione freudiana. Essa si differenzia da quella del Seminario IV per il nuovo rapporto che si introduce rispetto al reale. Per collocare al suo posto questa nuova ottica de L’etica della psicoanalisi, riprendiamo gli accenti principali che Lacan ha messo nella sua lettura della sublimazione freudiana, come uno dei “destini delle pulsioni”, così come si esprime Freud nel capitolo che apre la Metapsicologia del 1915, Pulsioni e loro destini.[3] Egli dà quattro destini alle pulsioni: la trasformazione nel contrario (vedere - essere visto); il volgersi sulla persona stessa; la rimozione e la sublimazione. Egli riformulava ciò che aveva enunciato nei Tre saggi sulla teoria sessuale e in un testo che segue, che si intitola La morale sessuale civile, dove dichiarava: “La pulsione sessuale (…) mette enormi quantità di forze a disposizione del lavoro d’incivilimento, e ciò a causa della sua particolare qualità assai spiccata di poter spostare la propria meta senza nessuna essenziale diminuzione d’intensità. Chiamiamo facoltà di sublimazione questa proprietà di scambiare la meta originaria sessuale con un’altra, non più sessuale ma psichicamente affine alla prima.”[4] Dunque, la sublimazione è spostata rispetto alla meta. Questa sublimazione è inibita rispetto alla meta sessuale, zielgehemmt, ma si soddisfa senza rimozione, c’è godimento. Freud rimaneggia questa sublimazione sul filo delle sue scoperte. Quando isola il narcisismo, nota che la sublimazione non è soltanto trasposizione della pulsione sessuale, ma che occorre anche che essa passi attraverso la passione narcisistica e che così si “desessualizzi”. Poi, quando introdurrà le pulsioni di morte negli anni venti, si domanderà se, dopo tutto, non sarebbe possibile non solo sublimare la soddisfazione della pulsione parziale, le pulsioni di vita, ma anche la pulsione di morte. Tutti enigmi che Freud via via decifrerà, conservando comunque lo “spostamento della meta” come una delle caratteristiche principali della pulsione. Lacan, nel Seminario XI, potrà dire come questo fosse un enigma posto fin dall’inizio dell’opera. E Lacan proporrà diverse maniere di risolverlo che tengono tutte in conto lo scarto introdotto tra la meta sessuale e il godimento della pulsione. La pulsione si sposta rispetto alla meta sessuale perché essa non cambia rispetto al proprio auto-erotismo. La sublimazione di Freud è il punto, notava Jacques-Alain Miller, in cui questi si avvicina al non rapporto sessuale lacaniano, il punto in cui il sessuale si separa dall’auto-erotismo della pulsione e dal suo godimento. Tutto il problema, per Lacan, è proprio quello di chiarire l’articolazione tra il godimento e il sessuale, o come il godimento auto-erotico della pulsione arrivi ad aggiungersi al desiderio dell’Altro.


Il Seminario L’Etica della psicoanalisi fa un passo in più rispetto al Seminario IV che  abbiamo cominciato a leggere. Poiché ciò che si presenta nel Seminario IVcome alterità assoluta, sarà situato nella dimensione del reale. Esso introduce il godimento in una dimensione di Reale al centro della realtà psichica del soggetto, in un’altra dimensione rispetto a quelle dell’Immaginario e del Simbolico. È la zona di “das Ding”, “al centro, ma come esclusa, inavvicinabile e protetta da una barriera… Lacan più tardi ha inventato una parola molto bella per qualificare questo, cioè extimità”.[5] La sublimazione popola questo vuoto, questa zona, di un certo numero di oggetti che sono al posto del vuoto, che hanno questo paradosso di essere vicini a questo vuoto, occupando il vuoto, costituendo il bordo del vuoto, seguendo i contorni della barriera che difende la zona del Godimento reale. C’è la sublimazione dell’amore che mira a questa zona e ci sono gli oggetti che vengono a riempirla. Questa disgiunzione può essere avvicinata in diverse maniere, secondo le soluzioni o paradigmi che Lacan sviluppa. Il termine paradigma fa eco al titolo che Jacques-Alain Miller ha dato alla ripresa nel suo corso Il reale nell’esperienza psicoanalitica[6] di una conferenza fatta a Los Angeles in un congresso di Cultural studies. Il paradigma III, quello dell’epoca de L’etica della psicoanalisi, nella rubrica generale del reale nell’esperienza psicoanalitica, mette particolarmente in evidenza l’impossibilità per il principio di piacere di raggiungere la zona del reale del godimento. Occorre dunque una forzatura per raggiungere questo posto, il posto del godimento. La struttura secondo la quale l’oggetto è elevato alla dignità della cosa è una struttura complessa che, in rapporto al reale, mette in gioco sia elementi simbolici che elementi immaginari. Nel descrivere questa struttura, Jacques-Alain Miller nominava questi elementi notando: “È così che ho potuto enumerare, all’interno di questo Seminario VII, nove incarnazioni della Cosa, nove casi di cui successivamente Lacan ci mostra che prendono questo posto del godimento. Rilevo qui il termine di posto che si trova anche negli Scritti. Se c’è posto è perché c’è questa barriera… Ci sono i termini che vengono a situarsi lì a partire dal simbolico (…) È per esempio la legge morale kantiana, l’imperativo kantiano nel suo assoluto distacco da tutto (…) C’è un altro elemento che viene dal simbolico, cioè la scienza (…) che nella sua esigenza di prendere appoggio su ciò che torna sempre allo stesso posto, occupa al suo livello fondamentale il posto della Cosa (…) Fatto che permetterà a Lacan di parlare della scienza come scatenamento, come processo mortale. Ci sono degli elementi che vengono dall’immaginario. È in questo titolo che Lacan iscrive gli oggetti della sublimazione, come per esempio l’opera d’arte (…) E poi ci sono dei termini di cui si può dire che qualifichino l’essere al di fuori di ogni avere. E Lacan faceva l’esempio della semplice interiezione dell’amore, il “Tu!”. È l’esempio del Tu! che ha di mira l’essere dell’Altro aldilà di tutte le qualifiche che le sue manifestazioni possono apportare… Ma è anche la madre in quanto godimento interdetto (…), il Padre in quanto sublimazione (…), la Dama dell’amor cortese in quanto partner inumano. È infine l’oggetto sadiano stesso, dato che l’opera di Sade è qui l’esempio dei raggiri che occorre fare per arrivare a oltrepassare questa barriera che isola il posto del godimento. Nella recente esposizione a Parigi che presentava le opere di Sade in maniera un po’ confusa ma che metteva ben in rilievo il carattere frenetico che piaceva tanto alla curatrice che aveva concepito la cosa. In questa messa in ordine, il nono termine è il vuoto, che è la figura della Cosa, quando la consideriamo dalla prospettiva del significante”.[7]


Questa serie allora è portata da Jacques-Alain Miller per sviluppare quella che chiama la struttura di aldilà che L’Etica della psicoanalisi mette in camponell’insegnamento di Lacan. “Che ci rappresenta un aldilà circoscritto. Non è l’aldilà aperto dell’amore dove la domanda, per la dinamica a lei propria, va verso il suddetto amore, verso l’apertura dell’amore. Qui, al contrario abbiamo un aldilà chiuso, interdetto, un aldilà limite al quale si accede solo per forzatura, per trasgressione, o per traversata… Dunque, da una parte la trasgressione e, dall’altra parte, la difesa”[8]. Tra gli oggetti che giungono a occupare il posto del godimento, c’è il partner sessuale dell’amor cortese e quello a cui punta Sade.


Questa struttura di aldilà, che radicalizza la prospettiva della sublimazione freudiana, situa un momento dell’insegnamento di Lacan in cui l’articolazione tra il posto del godimento e il linguaggio pone un problema. Jacques-Alain Miller sottolinea che all’epoca in cui curava la pubblicazione delle lezioni de L’Etica della psicoanalisi che trattano della sublimazione, aveva messo come titolo a queste lezioni Il problema della sublimazione. Ma in seguito, con il Seminario Ancora, la sublimazione non è più un problema, poiché “a partire dal momento in cui, al contrario, linguaggio e godimento vanno a braccetto, in cui il significante è la causa del godimento, si può dire che la sublimazione smette di essere un problema: essa è un godimento in pieno esercizio… In mancanza del godimento del rapporto sessuale, si ha il godimento della comunicazione, il godimento comunitario, quello che ci fa stare insieme, cioè tutto quello che ci occupa per sapere come ci si va a mettere a lato dell’Altro, nell’Altro, a quali regole obbediamo, come diamo degli ordini, come facciamo agire, come noi stessi obbediamo agli ordini, ecc...”. In questa prospettiva, nota: “Ancora, questo non è più l’insormontabile, l’inaccessibile dello sbarramento, è l’impossibile. Si passa dall’inaccessibile, dall’insormontabile, che si supera al prezzo di una forzatura, che vi costa un occhio della testa, si passa da questo all’impossibile”[9] che permette di definire il non-rapporto sessuale e la sua logica.


È questo orientamento, se vogliamo riprendere la metafora sadiana dell’apatia logica, dell’impassibilità logica in rapporto a tutto questo scatenamento furioso, che ci farà passare dall’idea della forzatura a quella della manipolazione – la manipolazione è un modo di saperci fare con il partner sessuale impossibile. Molto bene, c’è il non rapporto sessuale. Perfetto, c’è l’impossibile. Tuttavia, manipoliamo. Non abbiamo più bisogno di fare dei superamenti inverosimili. In fondo, quello che ne rimane ora, sono Cinquanta sfumature di grigio (Fifty Shades of Grey) di questo Mister Grey, con le “sex toys” che sono ora declinate come prodotti che invaderanno tutti i giornali a partire dal momento in cui il film sarà sugli schermi, come i pupazzetti di Guerre stellari (Star Wars) a partire dal momento in cui arriva Guerre stellari. Ma alla fine è un po’ logorato. Si sente bene che è dell’ordine della manipolazione. Finito l’eroismo del superamento dello sbarramento.


È questo orientamento che ci farà passare dal paradigma della trasgressione, del superamento, a quello della manipolazione, dell’immagine e del partner sessuale come abbiamo visto l’ultima volta. La manipolazione è al rovescio della trasgressione e del superamento di uno sbarramento.


Dunque, qui si vede come si appaiano manipolazione e narcisismo. Ma andiamo più avanti.

 

L’incrocio con il narcisismo

 

Nella sua conferenza, dopo aver introdotto il rapporto dello sgabello con la sublimazione, Jacques-Alain Miller aggiunge subito che questa sublimazione è “all’incrocio con il narcisismo”[10]. È un narcisismo modificato rispetto al mito freudiano nella misura in cui non si tratta più soltanto d’immagine ma del rapporto di credenza che lega il parlessere al corpo. È un narcisismo in cui il corpo è idolatrato in un rapporto di misconoscimento particolare che fa fare un passo, un giro, al narcisismo freudiano.


L’annuncio dell’insegnamento della passe che ha avuto luogo il 13 gennaio scorso, avvicinava due detti di Lacan molto ben scelti in cui l’uno risponde all’altro e lo chiarisce. In questo annuncio si poteva vedere un estratto del Seminario Il Sinthomo. Lacan dichiara: “Il parlessere adora il proprio corpo perché crede di averlo”[11]. Se continuiamo un po’ oltre le tre frasi successive, abbiamo: “In realtà non ce l’ha, ma il suo corpo è la sua sola consistenza. Consistenza mentale beninteso, perché il suo corpo se la squaglia a ogni istante.”[12] Era il sintomo, è il sinthomo. E un anno prima, in una conferenza a Nizza, Lacan enuncia: “L’uomo […] ama la sua immagine come la cosa a lui più vicina, vale a dire il proprio corpo. E tuttavia il fatto è che, del proprio corpo, egli non ne ha la minima idea. Crede che sia “io”. Ognuno crede che si tratti di sé. Invece è un buco. E poi, di fuori, c’è l’immagine. E con questa immagine egli fa il mondo.”[13] Notate l’omologia di queste due frasi. Nel Seminario Il sinthomo abbiamo “Il parlessere adora il proprio corpo perché crede di averlo”. In realtà, non ce l’ha ma “il suo corpo è la sua solo consistenza. Consistenza mentale beninteso, perché il suo corpo se la squaglia a ogni istante.” E a Nizza, “L’uomo […] ama la sua immagine come la cosa a lui più vicina, vale a dire il proprio corpo. E tuttavia il fatto è che, del proprio corpo, egli non ne ha la minima idea. Crede che sia “io”. Ognuno crede che si tratti di sé. Invece è un buco. E poi, di fuori, c’è l’immagine. E con questa immagine egli fa il mondo.”


Questa dichiarazione, con questa immagine “fa il mondo”, questa immagine-mondo arriva come un’eco del testo di Heidegger, nel ’38, su L’epoca dell’immagine del mondo, la nostra, e quella della scienza. Cito un estratto di questa conferenza in cui Heidegger parla dell’ “Immagine-mondo, in senso essenziale, significa quindi non una raffigurazione del mondo, ma il mondo concepito come immagine. L’ente nel suo insieme è perciò visto in modo tale che diviene ente soltanto in quanto è posto dall’uomo che rappresenta  e produce [herstellen]. Il sorgere di qualcosa come l’immagine del mondo fa tutt’uno con una decisione essenziale intorno all’ente nel suo insieme. L’essere dell’ente è cercato e rintracciato nell’essere-rappresentato dell’ente.”[14] Cosa che Lacan condensa in: è sufficiente avere un’immagine, vale a dire il fondamento della rappresentazione, e con questa immagine si fa un mondo.


Per Lacan, ciò che è primario, contrariamente a Heidegger, non è la rappresentazione come tale, è il corpo e non la rappresentazione-immagine. È per questo che dice: “L’uomo ama la sua immagine come…il proprio corpo” – il proprio corpo come primario. E’ questa la costante dei testi che leggiamo nel corso del nostro anno di lettura. Questo corpo è marchiato dal trauma. Lacan può dirlo in una serie di modi. Lì lo dice dicendo buco. Il corpo, “è un buco”. E il parlessere tenta di riempire questo buco con una credenza. Come nella fase precedente del suo insegnamento, quella della struttura dell’aldilà, Lacan installava il posto del godimento come un vuoto, circondato da una barriera, e si interessava agli oggetti che venivano a popolare questo vuoto. Qui, è in prima battuta il buco e quello che viene a inscriversi, non come un di dentro, ma come un di fuori. È l’immagine, che è la prima rappresentazione o prima barriera davanti a questo buco, questa immagine con cui fa il mondo.

 

 A partire da qui, occorre allacciare la cintura.


“L’S.Ca.bello è condizionato dal fatto che l‘uomo vive dell’essere (=che svuota l’essere)”[15]. Questo è il buco di partenza, il trou-ma – il corpo è il trauma. Non si parte dalle manifestazioni dell’essere alla Heidegger. Si comincia in primo luogo col fare un gran buco. Dunque, il fatto che “vive dell’essere (=che svuota l’essere) nella misura in cui ha – il suo corpo: ce l’ha del resto solo a partire da lì”[16], solo a partire dal buco. Il parlessere è un essere di vuoto, è il buco della conferenza di Nizza, tanto un avere quanto un abbaiamento[17], secondo una grafia di Lacan, secondo un abbaiamento primario.


La credenza nel corpo, nello sgabello precedente alla sfera, è anche misconoscimento – e questo è un chiarimento decisivo che Jacques-Alain Miller apporta nella sua conferenza per permetterci di decifrare questo passaggio che leggeremo. Jacques-Alain Miller la lega al fatto che essa “si fonda sull'io non penso primario del parlessere”[18] – questo io non penso, è ancheuna maniera di tradurre questo “vuoto d’essere”. Che cos’è, dice Jacques-Alain Miller, questo io non penso? “È la negazione dell'inconscio tramite cui il parlessere si crede padrone del proprio essere.”[19] C’è nello sgabello e nella sublimazione una modalità d’errore, di oblio, che riprende questo oblio dell’essere del Seminario IV, ma completamente trasformato, cosa che fa sì che appoggiandosi su di un rifiuto primario della stessa stoffa degli equivoci dell’inconscio, e, appoggiandosi e credendo nel proprio sgabello, il parlessere si dimentichi per poi ritrovarsi, per pensarsi padrone di sé stesso, padrone del proprio corpo. Questo chiarimento è decisivo poiché vediamo che lega il narcisismo della credenza all’idolo del corpo, all’adorazione del corpo come superficie d’iscrizione del trauma e un rifiuto del “parlare senza saperlo”, per continuare a credere d’essere padrone del proprio essere. È così ed è tramite questa credenza che si misconosce il fatto che “Parlo con il mio corpo, senza saperlo. E dunque dico sempre di più di quanto io non sappia.”[20] È un punto insopportabile. Ne discende la “negazione dell’inconscio” che il chiarimento di Jacques-Alain Miller colloca in questo punto. È dunque nel posto dell' “io non penso” primario che c’è l’adesione, la credenza negli ideali della cultura, “riserva di sgabelli”. La cultura come legame sociale e come discorso si fonda su un primario insopportabile dell’inconscio per costruire in seguito delle “riserve di sgabelli”.


Lacan prende in considerazione la sostituzione del parlessere che troviamo qui: “Ne discende la mia espressione del parlessere che si sostituirà all’ICS di Freud (si legga: inconscio): fatti in là che mi ci metto io, dunque. Per dire che l’inconscio, quando Freud lo scopre (si scopre d’un sol colpo, anche se occorre, dopo l’invenzione, farne l’inventario)”[21]. Qui Lacan prende in considerazione la sua sostituzione del parlessere all’inconscio freudiano secondo un uso ironico e singolare dell’opposizione cara agli empiristi logici e a Karl Popper tra contesto di scoperta e contesto di giustificazione[22]. Questa opposizione epistemologica è stata introdotta da un empirista logico che è Hans Reichenbach in un noto testo del 1938, I tre compiti dell’epistemologia. Il contesto di scoperta non era considerato da Hans Reichenbach come di pertinenza della filosofia delle scienze, ma della psicologia e delle circostanze sociali, considerando che solo il contesto di giustificazione rientra nell’ambito degli argomenti utilizzati per far accettare la scoperta. Quello che è importante è che, una volta scoperto, si tratta di sapere quali sono gli argomenti utilizzati da colui che ha scoperto qualcosa per farlo accettare agli altri. È questo il contesto di giustificazione: come si giustifica quello che è stato scoperto grazie a motivazioni che dipendono dalle circostanze sociali, dalla psicologia del ricercatore, da quello che vogliamo. Questo non ha alcuna importanza dal punto di vista dell’empirismo logico, si capisce. È il contrario per Lacan, che prende questa opposizione in un senso neo-heideggeriano quando nota che, nel momento in cui si scopre qualcosa, è d’un sol colpo, quello che si scopre è in un colpo solo. È dell’ordine dello svelamento, ed è all’improvviso. Non c’era, c’è. È all’improvviso per Freud. Blink! come direbbero gli amanti dei processi neuronali. Poi, ci vuole un tempo più lungo, l’inventario dell’invenzione che ha avuto luogo. Cosa si è trovato? Lacan fa giocare l’opposizione così “per dire che l’inconscio quando Freud lo scopre (si scopre d’un sol colpo, anche se occorre, dopo l’invenzione, farne l’inventario)”[23] e dunque, ritiene che la sola maniera ammissibile per parlare di questo inconscio scoperto, sia di dire, - giustifica l’inconscio come – è il “sapere, in quanto parlato, che costituisce LOM.”[24]


Questa successione, questa scansione è conforme a ciò che precede. Prima di tutto quello che costituisce LOM, che è il trauma fuori senso, che provoca un parlare senza saperlo, in seguito il sapere si deposita negli equivoci del parlato – parlato, al passato. Il legame dell’essere al senso è confermato da questa nuova definizione della parola. È la parola dopo il seminario Ancora, quella che è annodata al godimento, una parola piena non più di verità come nel primo insegnamento di Lacan, ma piena di godimento. Da cui il fatto che Lacan dica, nel testo che leggiamo: “la parola beninteso si definisce per il fatto d’essere il solo luogo in cui l’essere abbia un senso”. Il “beninteso” è doppiamente connotato. In prima battuta “beninteso” arriva come antifrasi, poiché Lacan introduce una definizionedel tutto nuova, e non abituale, della parola e la fa precedere da “beninteso”. Poi perché la parola “s’intende” e dunque c’è della voce nella faccenda. Cosa che, dopo tutto l’accento messo sullo sguardo e la vista, lo strabismo, la svista, tutto quello che veniva prima, che metteva l’accento sullo sguardo, arriva come una rottura.

 

Lo sgabello e il parlessere

 

 Per le sottigliezze sulla parola come il solo luogo in cui l’essere abbia un senso, rinvio al corso di Jacques-Alain Miller, L’essere e l’Uno, interamente centrato su questa tensione tra l’essere che si trova nel luogo dell’Altro, e l’Uno che è altrove. Notiamo anche che il luogo non è più soltanto il luogo “dell’Altro”, ma il luogo “della parola”. Il paragrafo si conclude con la riaffermazione dell’ontologia lacaniana. L’essere non è primo; lo è, è l’avere. Eppure, la torsione ontologica comune secondo la quale l’essere viene per primo è autorizzata dal “senso dell’essere”. È perché c’è un luogo in cui c’è questo senso che esso in seguito può apparire come primo. La frase di Lacan secondo la quale “il senso dell’essere è di presiedere all’avere, cosa che giustifica lo sproloquio epistemico”[25], questa frase è però,  straordinariamente, architettata in maniera particolare e deve richiamare la nostra attenzione. La prima parte della frase in special modo. Su dieci parole, Lacan ne articola cinque che sono le più fondamentali del discorso occidentale: l’essere, l’ente, l’avere, il padrone (ciò che presiede a) e, a questo dispositivo filosofico che Lacan interroga, risponde la seconda parte della frase che comprende la giustificazione che rinvia al fallimento fondamentale e all’atto mancato, e il sapere come legato sempre all’equivoco che viene a mascherare lo sproloquio epistemico. Il senso dell’essere, lontano dalle fantasticherie heideggeriane, è anche il godi-senso, ed è proprio lui che determina e presiede, secondo il termine che Lacan utilizza, chi è il padrone, tutto ciò che dipenderà dal registro dell’avere, del possessivo, del “mio” corpo o della “mia immagine”. Occorre dunque distinguere bene il livello fondamentale in cui il corpo lo si ha, che non suppone alcun possessivo possibile, poi un secondo livello dell’avere, quello in cui posso pensare per esempio agli oggetti della rappresentazione, poiché ho una forma, una sfera, che presiede all’Io.


Ne discende il paragrafo seguente, che domanda ancora più attenzione ai dettagli, che sviluppa questo punto e comincia col situare l’avere primario del corpo, prima che entri in gioco l’avere, nel secondo senso, come “mio” corpo. “L’importante, da quale punto – si dice  “di vista”, dobbiamo metterlo in discussione? -, l’importante, dunque, senza precisare da dove, è rendersi conto che LOM ha un corpo – e che l’espressione rimane corretta”.[26]


Lacan parte da un livello in cui non c’è io, c’è un partitivo: “LOM ha un corpo.” È un’attribuzione che precede ogni avere. Questa attribuzione, Lacan la vuole definire come precedente lo stadio dello specchio, precedente il rapporto alla vista, precedente il rapporto al punto di vista, il punto da cui si è visti. Philippe Lacadée aveva fatto molto con il punto da cui, ecc. Ma lì non ce n’è più. Dunque, importa senza precisare da dove. È lo stesso punto a cui si mira in Radiofonia con l’oggetto a come incorporeo che fonda il corporeo, e nel testo seguente che abbiamo letto con il “questo si sente”. Poco importa da dove. Prima di ogni entrata in gioco dello sguardo e del “punto di vista”, il corpo è il prodotto di un’operazione di impatto del dire. La scelta di Lacan è sottolineata dall’equivoco intorno a “punto”. L’espressione francese “punto di vista”, se viene scissa, fa apparire l’equivoco del point, tra il punto come luogo, il “piccolo frammento di”, e il punto come secondo elemento della negazione. È qui che il chiarimento di Jacques-Alain Miller è cruciale. “Lo sgabello è la sublimazione, ma in quanto si fonda sull'io non pensoprimario del parlessere.”[27] Il point del principio di questa frase “l’importante da quale punto” – mette un trattino -, è da intendere come rifiuto e non come “punto di vista”.


Lacan sottolinea che il partitivo: “LOM ha un corpo” è un’espressione che rimane corretta. Questo deve essere inteso nell’accezione più forte, in tutti gli equivoci dell’espressione, dell’espressione espressionista, ma soprattutto dell’espressione formula logica, sottolineata dal “corretta” che l’aggettiva. “L’espressione rimane corretta.” Maniera di farci intendere che Lacan riformula in questi due paragrafi, che abbiamo appena letto, la logica che nel suo primo insegnamento riprendeva da Freud intorno al giudizio d’attribuzione e al giudizio d’esistenza. Vi rinvio alle pagine più familiari degli Scritti in cui Lacan si appoggiava su di Hippolyteper interessarsi allo sproloquio epistemico intorno all’essere e all’avere nella forma lasciata in eredità da Freud attraverso la filosofia di Brentano. Il punto fondamentale concerneva all’epoca l’abolizione simbolica, causata dalla Verwerfung, e le sue conseguenze sul giudizio d’attribuzione di un avere, la Bejahung. Vi cito queste pagine per ricordarvi la musica del primo insegnamento con una melodia quasi-wagneriana, in rapporto al condensato che leggiamo noi, dove nondimeno si annodano i rapporti dell’essere e dell’avere in frasi di dieci parole. Questo non è wagneriano, è Debussy. È francese, molto francese. “La Verwerfung ha dunque tagliato corto con ogni manifestazione dell’ordine simbolico, cioè con la Bejahung posta da Freud come il processo primario in cui il giudizio attributivo si radica, e che non è altro che la condizione primordiale perché del reale qualcosa venga ad offrirsi alla rivelazione dell’essere, o, per usare il linguaggio di Heidegger, sia lasciato-essere. Freud ci porta infatti proprio a questo punto, poiché è soltanto dopo che qualsivoglia cosa potrà esservi ritrovata come essente. Tale è l’affermazione inaugurale, che non può più essere rinnovata se non attraverso le forme velate della parola inconscia […]. È così infatti che bisogna comprendere la Einbeziehung ins Ich, l’introduzione nel soggetto, e la Ausstossung aus dem Ich, l’espulsione fuori dal soggetto. Il reale è costituito da quest’ultima […]. Giacché il reale non attende, e non attende il soggetto, perché non attende nulla dalla parola. Ma è lì, identico alla sua esistenza, rumore in cui si può tutto intendere, e pronto a sommergere dei suoi bagliori quel che il ‘principio di realtà’ vi costruisce sotto il nome di mondo esterno.”[28] Lacan fonda brillantemente su questo approdo la sua teoria dell’allucinazione: quello che non ha potuto essere ammesso nel simbolico riappare nel reale e chiarisce con questo magnifico sviluppo l’allucinazione dell’uomo dei lupi. Ma è un momento del suo insegnamento in cui le tre consistenze non sono equivalenti e in cui l’aggancio simbolico/reale non è determinato come accessibile al processo analitico attraverso l’immaginario e la sua radice nel corpo.


Vorrei richiamare la vostra attenzione su questa frase che termina il paragrafo che vi ho letto e che resta come una pietra angolare per Lacan, questo reale come aldilà della realtà, in cui si può “tutto” intendere. Il reale “è lì, identico alla sua esistenza, rumore in cui si può tutto intendere, e pronto a sommergere dei suoi bagliori quel che il ‘principio di realtà’ vi costruisce sotto il nome di mondo esterno.”[29] Ritroviamo gli stessi meccanismi della costituzione che Lacan notava nel seminario Il Sinthomo: c’è il buco, poi c’è un’immagine che viene come dal di fuori e da questa immagine si costruisce un mondo. È questa strutturazione della costituzione del mondo attraverso i rapporti dell’essere e dell’avere che nel 1955 coglieva con questa logica Bejahung/Ausstossung e che ora riprende altrimenti. Se la dobbiamo accostare alla frase che abbiamo incontrato, scelta dagli AE in esergo della loro serata: “l’uomo […] ama la sua immagine come la cosa a lui più vicina, vale a dire il proprio corpo. E tuttavia il fatto è che, del proprio corpo, egli non ne ha la minima idea. Crede che sia ‘io’.”[30] Questo è il meccanismo proprio dell’Ich, del Lust-Ich, come ciò si compone, ecc. Non è un’idea preliminare, sono delle operazioni che giocano su quello che è respinto e quello che è ammesso. “Ognuno crede che si tratti di sé. Invece è un buco. E poi, di fuori, c’è l’immagine. E con questa immagine egli fa il mondo.”[31]


Il testo pubblicato nel 1956 sottolinea così i due tempi dell’avere o della rappresentazione e la questione del di dentro e del di fuori. “Prima c’è stata l’espulsione primaria, cioè il reale come esterno al soggetto. Poi all’interno della rappresentazione (Vorstellung), costituita dalla riproduzione (immaginaria) della prima percezione, la discriminazione della realtà […]. Ma in questa realtà che il soggetto deve comporre secondo la gamma ben temperata dei suoi oggetti, il reale in quanto espunto dalla simbolizzazione primordiale, già c’è. Potremo anche dire che discorre da solo.”[32] Abbiamo qui un’omologia tra il buco, l’immagine, la costituzione del mondo a partire dalla rappresentazione-immagine e che permette poi che il soggetto possa determinare degli oggetti che possa dire suoi a partire da un registro dell’avere che è assolutamente disgiunto - l’abbaiamento primario. Bisognerebbe riprendere punto per punto l’omologia e le differenze tra il testo degli Scritti e quello degli Altri scritti, e partire dal godimento come ciò che cambia tutto e determina il passaggio verso “l’Altro Lacan”. Come ha notato Jacques-Alain Miller, Godimento figura nell’indice ragionato degli Scritti solo in quanto legato alla castrazione[33] ed è in seguito che apparirà nella sua dimensione non negativizzabile – precisamente non marcata dal meno phi della castrazione -, occupando il luogo di un’affermazione precedente la Bejahung. Occorrerebbe questo sforzo di lettura per seguire Lacan che ripensa la costituzione del mondo di colui che chiama con tre lettere, LOM, a partire dalle tre consistenze diventate equivalenti: R, S, e I. È ciò che mette in esergo allo sviluppo che abbiamo seguito: “Egli ha (perfino il suo corpo) poiché appartiene al contempo a tre… chiamiamoli ordini.”[34] Ma  entrare nei dettagli dell’omologia del testo degli Scritti e degli Altri scritti avrebbe senza dubbio comportato di consacrare le nostre letture lacaniane al solo testo di Joyce Il sintomo. Ho scelto piuttosto la trasversalità, per sostenere la trasversalità dei concetti evidenziata da Jacques-Alain Miller, mentre al contrario, l’unità è data dalla sua Conferenza.

 

Il Corpo e LAM. Critica del godimento dello sgabello

 

Continuiamo a leggere quello che l’uomo ha: “LOM ha un corpo […], sebbene LOM ne abbia dedotto di essere un’anima – cosa che, beninteso, “visto” il suo strabismo, ha tradotto dicendo che, anche quest’anima, egli l’aveva.”[35] Questa articolazione, che anche qui richiede tutta la nostra attenzione suppone, quello che viene prima. È il punto in cui si annodano il rifiuto di sapere sulla frammentazione dell’esperienza del godimento equivoco e la credenza all’unità del corpo, alla sua forma primordiale, che a partire da Aristotele ha per nome l’anima. E ancora qui Lacan nomina i due oggetti che sono il sentito, la voce, e lo sguardo, la vista, con quello che chiama lo strabismo [biglerie], altro nome della svista [bévue], che include lo stesso bis, lo stesso “due volte”, lo stesso raddoppiamento che era all’opera, colto in una certa maniera anche nel 56. Voi siete sensibili al partitivo, certo. Lacan non dice: “ha tradotto dicendo che, anche l’anima, egli l’aveva”, ma dice che ha tradotto che anche quest’anima, egli l’ aveva. Perché dire traduzione. È forse in questo punto che si svela perché Lacan parta da LOM in tre lettere. È per fare assonanza, risonanza, della traduzione primordiale tra LAM e LOM. L’ambizione di Lacan è di aiutarci a ritrovare, al di sotto della traduzione, della metafora de LAM/LOM, che LAM ha superato il fondamento de LOM per cui la costituzione de LOM deve essere rimessa al suo posto logico, che sfugge ad ogni sessuazione.


Il commento aggiunto da Jacques-Alain Miller su questo momento della traduzione che nota Lacan, che è sempre tradimento, è decisivo: “È la negazione dell'inconscio tramite cui il parlessere si crede padrone del proprio essere. E con il suo sgabello egli vi aggiunge che crede di essere un padrone bello.”[36]


Questa padronanza, Lacan la approccia con il “farci con”, che dipende dal secondo tempo dell’avere. “Avere vuol dire poter fare qualcosa con.”[37] Questa frase risuona, prende le distanze, sovverte quella che a un certo punto era un’evidenza dello strutturalismo: Sapere è potere. In maniera consistente per Lacan, il sapere arriva nell’aprés-coup dell’equivoco e della mispresa. Per Lacan, sapere è sbagliarsi del tutto. Sapere non è potere. Sapere, il solo potere che questo ha, è in definitiva quello di sbagliarsi. Vedete, se aveste detto questo a Foucault, egli non avrebbe… In fondo, non era il suo punto di partenza. C’è prima di tutto l’avere come potere di  farci con. Si è lontani dal potere e dal poter essere il padrone e dai rapporti di dominanti e di dominati e tutta la faccenda che arriva a partire dal momento in cui si ha: sapere, è potere. Foucault, Bourdieu sono nella discendenza. C’è prima di tutto l’avere come potere di farci con. Per questo l’espressione saperci fare con il sintomo, che noi utilizziamo senza rifletterci, merita al contrario tutta la nostra attenzione, merita di soffermarci nel suo labirinto. Il saperci fare non viene immediatamente. Occorre in primo luogo l’articolazione con la modalità del possibile.


Questo è quello che abbiamo dopo, ma dispieghiamo la condensazione lacaniana. L’anima, secondo Aristotele, era il punto in cui si annodavano il corpo e l’intelletto, i noumeni che sono le idee che l’intelligenza (noùs), che è una sorta di organo supplementare alla Chomsky, permette di vedere. Essa vede le idee, le coglie, mentre la vista può raggiungere solo le cose visibili, gli oromeni. I noumeni sono le Idee che non possiamo percepire attraverso i sensi, ma solamente attraverso l’intelletto.[38] È questo annodamento tra visione e intelletto che Lacan disfa sottolineando ancora che il mondo come insieme di possibili non è una percezione, una visione delle idee grazie allo strumento  di visione superiore che è l’anima. Come diceva un platonico francese che Lacan citerà in seguito: “Dio ha fatto la ragione per percepire la verità così come ha fatto l’occhio per vedere e l’orecchio per intendere.”[39]


Lacan inventa per noi il termine avisione (avisiont) per prendere le distanze da ogni percezione delle idee. Questo vocabolo condensa il verbo aviser che ha un doppio senso in francese. In primo luogo quello di sottolineare un momento di scoperta tramite la visione, la vista avvertita, è l’istante di vedere veramente. È un rendersi conto più che un vedere, un “cominciare a guardare”, dice il Robert. Per noi, è l’istante dello sguardo. Poi, aviser è anche riflettere. “Occorre decidere sulle cose più urgenti”, dice Proust. È il tempo per comprendere, e Dio sa se se lo prendeva. L’avisiont di Lacan, con una t finale - questa è una raffinatezza -, è omofono ad avision con una s e senza la t, che è già una parola nuova, una visione marcata dall’a privativa. Un’assenza di visione. E, se ci si aggiunge la t finale, come scrive Lacan, pura lettera muta, noi cogliamo che quest’assenza di visione è altrettanto ben determinata da un’assenza di mire [visée], essa si produce senza che noi ne visioniamo alcunché (verbo omofono a visiont). Così come è l’assenza d’idee sul corpo a far sì che noi crediamo a un corpo che sarebbe Io, nello stesso modo noi non percepiamo le idee nel mondo, cosa che rende la costituzione del mondo come possibile a partire da un “non”. Noi crediamo a un corpo che sarebbe Io: è perché c’è un buco, non c’è idea del corpo, dunque occorre crederci. Beh, la stessa cosa, è perché non si ha alcuna visione di questo insieme di possibili, ma al contrario, come dice Lacan, occorre prima di tutto definire il possibile a partire da un “non”. “La sola definizione del possibile infatti è che esso può non ‘aver luogo? – cosa che viene presa per il verso opposto, vista l’inversione generale di quello che si chiama pensiero.”[40] E lì Lacan prosegue opponendo Platone e Bacon, Francis Bacon. Ne discende la frase divertente “Aristote, Pacon contrairement au B de même rime[41] - Aristotele, non coglione,  contrariamente a B[acone], che fa rima con coglione.” [42], che fa pensare anche alla quartina che amava molto: Malebranche o Locke, chi è il più scaltro, chi è il più stravagante? È filosofia divertente e molto potente. Perché dunque considerare che Aristotele è Pacon, se lo si compara a Bacon. Quello che gli rimprovera Lacan è senza dubbio il suo Novum Organum dove egli fonda il suo approccio delle scienze e del mondo. Lì la guida di Lacan è senza dubbio Koyré. Per le questioni che riguardano la scienza faceva affidamento su Koyré. Al principio degli Studi galileiani, Alexandre Koyré dichiara: “Bacon iniziatore della scienza moderna – come sintagma – è una battuta, e mal riuscita, che i manuali ancora ripetono spesso. Di fatto, Bacon non ha mai capito nulla della scienza.”[43] Lascio a Koyré la sua responsabilità. Gli inglesi, beninteso, gli epistemologi inglesi hanno già aggiunto alcuni volumi di biblioteca per spiegare che: Koyré sì, in un senso, ha ragione, ma in un altro, ha torto e comunque, è Bacon che ha fondato la scienza moderna e con essa, l’Inghilterra intera. Koyré si fondava su questo perché altri autori, in particolare per esempio quelli che hanno fatto la traduzione francese del Novum Organum, apparsa relativamente di recente, insomma quindici anni fa, sottolineano come la sua filosofia naturale lo conduca a preferire la metafisica alle matematiche nel suo discorso del metodo personale. “Certo, Bacon rifiuta Copernico, disdegna Gilbert – che era un fisico sperimentatore, matematico, e critica Galileo.”[44]


Piuttosto che questo νοὺϛ di Platone che suppone di combinare percezione dei sensi, raccolta dei sense data nell’esperienza, e visione delle verità superiori, con il corpo, Lacan preferisce il nodo a tre. Fa ancora un’osservazione che merita che vi ci soffermiamo: “Nodo tra cosa e cosa, questo non lo dico perché non lo so”.[45] È comunque sorprendente. Dall’inizio, ci dice che ci fa un nodo a tre con R, S e I, solo che qui, brutalmente, ci dice “Nodo tra cosa e cosa, questo non lo dico”. Ma, fortunatamente, continua. Ma “metto a frutto il fatto che LOM, dacché s’immonda, non può cessare di scrivere trinità. Senza che la preferenza di Victor Cousin per la triplicità vi aggiunga qualcosa: vada comunque per la triplicità, se così si vuole, poiché il senso, là, è tre. Il buon senso, intendo dire.”[46] Allora, che vuol dire questo? Perché dire che “tra cosa e cosa, questo non lo dico perché non lo so”,mentre Lacan martella che si tratta di R, S, I che si annodano a tre? Per saperlo, occorre leggere più avanti. Egli evidenzia il tre del nodo, la trinità, dalla quale distingue la triplicità del caro Victor Cousin. La trinità, Lacan la pone fuori senso. Da LOM fino a RSI, siamo fuori senso. Sono dei Nomi. L’abbiamo visto l’ultima seduta. Dei nomi puri che in ultima istanza riposano sul nome proprio finale e, dunque, fuori senso. Al contrario, la triplicità è piena di senso: il Vero, il Bello, il Bene. Questa triplicità viene dal corso di estetica di Victor Cousin[47] impartito per la prima volta nel 1818 e dove questo brillante allievo del liceo Charlemagne, puro prodotto dell’Educazione Nazionale Napoleonica, lancia il suo metodo che aveva fatto un formidabile scalpore. Fondare il vero su di un metodo non dialettico, non hegeliano, qualificato come eclettico in cui alla fine è tramite il buon senso che egli si orienta.[48] Pierre Macherey, eccellente professore che ho avuto l’opportunità di avere, lo spiega molto bene nella rivista Corpus, che accompagnava il corpo delle edizioni dei filosofi francesi. Un pensatore critico, Bakunin, anarchico e contro ogni pensiero ufficiale, ce lo dice al rovescio. Parla di Cousin dicendo: “Oratore superficiale e pedante, ingenuo quanto a concezione originale, a ogni pensiero che gli fosse proprio, ma molto forte nel luogo comune, che egli ha il torto di confondere con il buon senso, questo filosofo illustre ha preparato saggiamente, ad uso della gioventù studentesca di Francia, un piatto metafisico nel suo stile, e la cui consumazione, resa obbligatoria in tutte le scuole dello Stato sottomesse all’Università, ha condannato diverse generazioni successive a un’ indigestione di cervelli.”[49] Questo, per le neuroscienze, è l’effetto positivo sui neuroni. Evidentemente Bakunin è anarchico, si prende gioco di tutto e ha dovuto sbafarsi l’insegnamento di Cousin. Ma all’inizio, quando Cousin parlava nei suoi primi seminari, ha avuto come allievo Balzac. Al contrario, Balzac aveva apprezzato molto il suo insegnamento che ha seguito dal 1816 al 1819. Balzac è stato molto impressionato da Cousin, ne aveva una buona impressione. Dunque, tutto effettivamente finisce col fabbricare dei piatti indigesti. Ma quando Lacan riprende con ironia il buon senso alla Victor Cousin, è per introdurre il senso lacaniano, cioè il godi-senso, il godimento. È quello che Jacques-Alain Miller chiarisce in maniera magistrale nella sua Conferenza. Dopo aver introdotto lo sgabello allo stesso titolo del sinthomo come i concetti dell’epoca del parlessere, Jacques-Alain Miller li separa attraverso il registro del godimento che è loro proprio. Lo sgabello “è il parlessere nella sua faccia di godimento della parola. È questo godimento della parola che fa nascere i grandi ideali del Bene, del Vero e del Bello”[50] – è nello strabiliarsi di parole alla Bakunin oppure se rileggiamo Macherey che spiega bene come ha costruito il suo sistema anti-scettico. Questo vuol dire bloccando la via ad ogni riflessione scettica. Ma l’essenziale è che è attraverso il godimento della parola, del bla-bla, che arriviamo ai grandi ideali – “Lo sgabello è dalla parte del godimento della parola che include il senso. Il godimento proprio del sinthomo, invece, esclude il senso.”[51] Ritroviamo qui una critica verso la forma di sublimazione nuova che implica lo sgabello. Essa implica un godimento legato al senso. È quello da cui occorre passare prima di raggiungere il fuori-senso. Ed è per questo che Lacan può dire al tempo stesso: mi servo del nodo che è composto dei tre ordini R, S, I ma non dico tra cosa e cosa faccio il nodo. È per questo che può dire “nodo tra cosa e cosa, questo non lo dico perché non lo so.” Ma è perché è questo nodo che permette di produrre il godimento nella sua articolazione.


Così, parlare con il proprio corpo-sgabello è passare attraverso i defilé della parola sostenuti dalla dimensione del senso. Da intendere, questo, come nell’ultimo insegnamento di Lacan, vale a dire parole di godimento e godimento della parola, che genera gli universali. Nessuna visione sublime alla Platone o neo-darwinismo alla Jean-Pierre Changeux, che vuole generare con i mezzi della biologia il puro soggetto del Bello, del Vero, del Bene, definito e garantito semplicemente dall’adeguamento del pensiero con il mondo. È anche un argomento contro-scettico. In questa prospettiva, quella di Changeux, secondo la quale delle rappresentazioni sono garantite e dunque ci conducono ineluttabilmente al Bello, al Vero e al Bene, queste sono garantite da un processo non d’impronta ma di selezione biologica nell’interazione con il mondo. “Quando interagisce con il mondo esterno, il nostro cervello si sviluppa e funziona secondo un modello di variazione-selezione, a volte chiamato ‘darwiniano’. Seguendo questo schema […], la variazione, la genesi di una diversità di forme interne precede la selezione della forma adatta. Le ‘ rappresentazioni’ si stabiliscono nel nostro cervello non semplicemente per ‘impronta’, come su di un blocco di cera, ma indirettamente, a seguito di un processo di selezione.”[52] In questa prospettiva, le leggi della ragione coincidono con il mondo tramite il lungo processo di selezione grazie al quale le leggi potrebbero essere diverse se il mondo fosse diverso.


Né l’uno, né l’altro, né visione, né neurone, parlare con il proprio corpo-sgabello suppone un godimento particolare che si prova con il corpo: il godimento della parola.

 

Traduzione di Laura Pacati

Revisione di Paola Bolgiani

 

Laurent- Parlare con il proprio corpo-sgabello.pdf


[1]Miller J.-A., L'inconscient et le corps parlant, in www.wapol.org; (tr. it. L’inconscio e il corpo parlante, in www.wapol.org  e in Aggiornamento sul reale, nel XXI secolo, AMP, Roma: Alpes 2015, p. 275).

[2]Lacan J., Il Seminario, libro VII, L'etica della psicoanalisi (1959-1960), Torino: Einaudi 1994, p. 141.

[3]Freud S., OCF XIII, Pulsions et destins des pulsions, pp. 161-185; (tr. it. OSF 8, Pulsioni e loro destini, Torino: Bollati Boringhieri 1992, pp. 13-35).

[4] Freud S, La maladie sexuelle “civilisée” et la maladie nerveuse des temps modernes , in La Vie sexuelle, Paris: PUF 1969, p. 33; (tr. it. OSF 5, La morale sessuale ‘civile’ e il nervosismo moderno, Torino: Boringhieri 1972, p. 416). 

[5]Miller J-A, Corso Du Symptôme au fantasme, lezione del 12 gennaio 1983 (inedito).

[6]Miller J-A, Les 6 paradigmes de la jouissance, lezioni del 24, 31 marzo e 7 aprile 1999, in La Cause freudienne n. 43, 1999.

[7] Miller J-A, Corso Le partenaire symptôme , lezione del 4 marzo 1998 (inedito).

[8]Ivi.

[9] Miller J-A, discussione con PG Gueguen in Le partenaire symptôme,op. cit.

[10] Miller J.-A., L'inconscient et le corps parlant, in www.wapol.org; (tr. it. L’inconscio e il corpo parlante, in www.wapol.org  e in Aggiornamento sul reale, nel XXI secolo, AMP, Roma: Alpes 2015, p. 275).

[11] Lacan J., LeSéminaire XXIII, livre XXIII, Le sinthome, Paris: Éditions du Seuil 2005, p. 66 : “Le parlêtre adore son corps parce qu’il croit qu’il l’a. En réalité, il ne l’a pas, mais son corps est sa seule consistance - consistance mentale bien entendu, car son corps fout le camp à tout instant.”; (tr. it. Il Seminario, libro XXIII, Il sinthomo, Roma: Astrolabio-Ubaldini 2005, p. 62).

[12]Ivi.

[13]Lacan J., Le phénomène Lacanien, conferenza del 30 novembre 1974, in Cahiers cliniques de Nice, 1998, tiré à part en 2011; (tr. it. Il fenomeno lacaniano, in La Psicoanalisi, n. 24, 1998, p. 17).

[14]Heidegger M., L'époque des conceptions du monde, in Chemins qui ne mènent nulle part, Paris: Idées/Gallimard 1980, p.117; (tr. it. L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, Firenze: La Nuova Italia 1968, p. 87-88).

[15] Lacan J., Joyce le Symptôme, in Autres Ecrits,Paris: Éditions du Seuil 2001, p. 566; (tr. it. Joyce il Sintomo, in Altri scritti, Torino: Einaudi 2013, p. 558).

[16]Ivi.

[17] Vedi nota 4 a p. 557: Joyce il Sintomo, op. cit.: [Avoiement, condensazione tra il verbo avoir, “avere”, e aboiement, “abbaiamento”].

[18]Miller J.-A., L'inconscient et le corps parlant, in www.wapol.org; (tr. it. L’inconscio e il corpo parlante, in www.wapol.org  e in Aggiornamento sul reale, nel XXI secolo, AMP, Roma: Alpes 2015, p. 275).

[19]Ivi.

[20] Lacan J., LeSéminaire XX, livre XXIII, Encore, 15 mai 1973, Paris: Éditions du Seuil 1975, p. 108; (tr. it. Il Seminario, libro XX, Ancora, 15 maggio 1973, Torino: Einaudi 2011, p. 114).

[21] Lacan J., Joyce le Symptôme, op. cit.,p. 566; (tr. it. Joyce il Sintomo, op. cit., p. 558).

[22]Reichenbach H. (1938), Les trois tâches de l’épistémologie, in Philosophie des sciences - Théories, expériences et méthodes, testi riuniti da S. Laugier e P. Wagner, Vrin, 2004, p.307.

[23] Lacan J., Joyce le Symptôme, op. cit.,p. 566; (tr. it. Joyce il Sintomo, op. cit., p. 558).

[24]Ivi.

[25]Ivi.

[26] Lacan J., Joyce le Symptôme, in Autres Ecrits, op. cit., p. 566; (tr. it. Joyce il Sintomo, op. cit., p. 558).

[27] Miller J.-A., L'inconscient et le corps parlant, in www.wapol.org; (tr. it. L’inconscio e il corpo parlante, in www.wapol.org  e in Aggiornamento sul reale, nel XXI secolo, op. cit., p. 275).

[28] Lacan J., Réponse au commentaire de Jean Hyppolite (1954), in Ecrits, Paris: Éditions du Seuil 1966, p. 387-388; (tr. it. Risposta al commento di Jean Hyppolite, in Scritti, volume I, Torino: Einaudi 2002, pp. 379-380).

[29]Ibidem, p. 388; (tr. it. Ibidem, p. 380).

[30] Lacan J., Le phénomène Lacanien, op. cit.; (tr. it. Il fenomeno lacaniano, op. cit., p. 17).

[31]Ivi.

[32]Lacan J., Réponse au commentaire de Jean Hyppolite, op. cit., p. 389; (tr. it. Risposta al commento di Jean Hyppolite, op. cit., p. 380-381.

[33] Lacan J., Ecrits, Éditions du Seuil: Paris 1966,p. 900; (tr. it. Scritti, volume secondo, Torino: Einaudi 2002, p. 907).

[34] Lacan J., Joyce le Symptôme, in Autres Ecrits, op. cit., p. 565; (tr. it. Joyce il Sintomo, op. cit., p. 557).

[35]Ibidem, p. 566; (tr. it. Ibidem, p. 558).

[36]Miller J.-A., L'inconscient et le corps parlant, in www.wapol.org; (tr. it. L’inconscio e il corpo parlante, in www.wapol.org  e in Aggiornamento sul reale, nel XXI secolo, op. cit., p. 275).

[37]Lacan J., Joyce le Symptôme, op. cit., p. 566; (tr. it. Joyce il Sintomo, op. cit., p. 558).

[38] Article Noumène, in Les Notions philosophiques, dictionnaire 2, Paris: PUF, 1990, p.1772.

[39] Cousin V., Du vrai, du beau et du bien, Paris: Didier Libraire-Éditeur 1854.

[40]Lacan J., Joyce le Symptôme, op. cit., p. 566; (tr. it. Joyce il Sintomo, op. cit., p.  558).

[41]NdR.: si è preferito riportare il gioco di parole tra Pacon e pas con: non coglione. La traduzione a p. 558 di Joyce il Sintomo è invece questa :  “Aristotele, contrariamente al B che fa rima con coglione”.

[42]Ivi.

[43]Koyré A., Etudes galiléennes, Paris: Hermann 1966; (tr. it. Studi galileiani, Torino: Einaudi 1976).

[44]Introduction di Michel Malherbee Jean-Marie Pousseura Bacon F., Novum Organum [1620], Paris: PUF 1986, p.32.

[45] Lacan J., Joyce le Symptôme, op. cit., p. 566; (tr. it. Joyce il Sintomo, op. cit., p. 558).

[46]Ivi.

[47] Cousin V., Du vrai, du beau et du bien,  pubblicato da Adolphe Garnier, Paris 1836 (dal Corso di filosofia tenuto da Victor Cousin alla Facoltà di Lettere nell’anno 1818, sul fondamento delle idee assolute del vero, del bello e del bene).

[48]Macherey P., in Corpus, n. 18-19, sur Victor Cousin, pp. 29-49, disponibile sul sito http://stl.recherche.univ-lille3.fr:Cousin riaffermava in seguito, sempre sulla scia di Royer-Collard, la necessità di fare affidamento sul senso comune: “La filosofia moderna era scettica a partire dal fatto che non ammetteva altra evidenza naturale al di fuori di quella della coscienza e del ragionamento. L’ipotesi delle idee non è affatto una macchina immaginata per attaccare e rovesciare il mondo, ma al contrario, per risollevarlo e difenderlo; essa non era affatto destinata a distruggere la percezione, ma a supplirla, quando la percezione fosse stata distrutta, e a servire da scudo contro lo scetticismo, scudo impotente che non rimpiazza affatto il vero, quello che la natura ha messo nell’intelletto di tutti gli uomini che non può essere scosso che dal sofismo e che, cadendo, porta necessariamente con sé tutte le realtà esteriori.” Ritroviamo qui l’eco delle critiche di Reid contro la dottrina intellettuale della rappresentazione e il suo “ideismo”, al quale rimproverava di subordinare l’esistenza del mondo esterno a dei criteri razionali, e di condurre così a un dubbio universale: e per sfuggire a questo rischio, Reid aveva preconizzato di ristabilire altre forme di certezza, pre-razionali nel loro principio. Cousin dunque riprendeva questo argomento, senza aggiungervi nulla. Tutt’al più completava, in questo passaggio del suo corso, il riferimento a Reid con una breve allusione ad un ‘metafisico francese contemporaneo’: Maine de Biran senza dubbio, le cui concezioni, ancora ignorate dal grande pubblico, erano allora per la prima volta evocate in un ambito ufficiale.”

 [49] Bakounine M., Dieu et l’Etat [1882], Paris: Mille et une nuits 2000; (tr. it. Dio e lo Stato, Pisa: BFS edizioni 2008).

[50] Miller J.-A., L'inconscient et le corps parlant, in www.wapol.org; (tr. it. L’inconscio e il corpo parlante, in www.wapol.org  e in Aggiornamento sul reale, nel XXI secolo, op. cit., p. 275).

[51]Ivi.

[52] Ricœur P. e Changeux J.-P., Ce qui nous fait penser (p.109), citato in Malabou C., Epigénèse et rationalité, PUF:  Paris 2014, p. 259. 


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